La “Spazzacorrotti” e il regime di ostatività.

Con la Legge n. 3 del 9 gennaio 2019, entrata in vigore il successivo 31 gennaio, è stato introdotto un sistema normativo volto a contrastare il fenomeno della corruzione e, più in generale, dei reati contro la Pubblica Amministrazione, attraverso l’inasprimento delle sanzioni, divenute particolarmente rigide.

Tale novella è stata definita dall’opinione pubblica “spazzacorrotti” e ha comportato una sostanziale equiparazione della disciplina di tali reati a quella prevista per i reati di criminalità organizzata.

A tal proposito, basti pensare all’estensione del regime di ostatività previsto dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (da ora “o.p.”) ai delitti contro la Pubblica amministrazione.

Quest’ultima scelta normativa, tuttavia, ha suscitato molte perplessità, risolte, in parte, dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, n. 32 del 2020. In particolare, i dubbi erano sorti in relazione alla mancata previsione di una norma volta ad escludere l’applicazione retroattiva del regime ostativo in relazione ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della Legge in esame.

Prima ancora di approfondire la questione sollevata dinanzi alla Corte Costituzionale, si ritiene opportuno analizzare in che modo il sistema ostativo disposto dall’art. 4 bis o.p. incida sul trattamento sanzionatorio del condannato.

Tale sistema, infatti, introdotto con la Legge n. 152 del 13 maggio 1991, comporta il divieto di concessione dell’assegnazione al lavoro esterno, dei permessi premio e delle misure alternative alla pena detentiva, ad esclusione della libertà anticipata, per talune categorie di soggetti, individuati in base al reato posto in essere, in ragione della sua gravità e della pericolosità sociale di colui che lo ha commesso.

Il divieto dei benefici

Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 4 bis o.p. è possibile distinguere tra reati ostativi di prima fascia (commi 1 e 1 bis) e reati ostativi di seconda fascia (comma 1 ter): il discrimine riguarda le modalità attraverso le quali il condannato può liberarsi della presunzione di pericolosità e, di conseguenza, dell’operatività delle preclusioni.

Per la prima fascia, in particolare, il divieto di accesso ai benefici penitenziari è assoluto, superabile esclusivamente per mezzo della collaborazione del reo con la giustizia, ai sensi dell’art. 58 ter o.p. o dell’art. 323 bis, co, 2, c.p.

Tale rigidità, tuttavia, è stata attenuata con l’introduzione di due circostanze: la prima riguarda il caso in cui la collaborazione sia irrilevante ai fini dell’accertamento dei fatti, la seconda quando tale apporto collaborativo risulti impossibile.

Per i reati di seconda fascia, invece, il divieto di accesso ai benefici penitenziari opera soltanto nel caso in cui il condannato abbia avuto contatti con la criminalità organizzata.

La Legge Spazzacorrotti ha inserito alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione all’interno dei reati ostativi cc.dd. di prima fascia, con la conseguente applicazione del divieto assoluto dei benefici penitenziari.

Come accennato, però, il problema di tale scelta legislativa atteneva all’assenza di una disposizione transitoria che garantisse l’inapplicabilità della novella normativa ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.

Mere disposizioni di carattere processuale?

L’applicazione retroattiva della Legge Spazzacorrotti, all’interno delle aule di giustizia, era legittimata da un diffuso orientamento giurisprudenziale che considerava le modifiche normative da essa apportate mere disposizioni di carattere processuale e non già sostanziale, poiché relative alle modalità di esecuzione della pena.

Tuttavia, tale orientamento, criticato non solo dalla dottrina, ma anche da altra parte della giurisprudenza, ha subito un arresto con la questione posta dinanzi alla Corte Costituzionale, che, con sentenza n. 32 del 2020 depositata il 26.2.2020 e pubblicata in G. U. il 4.3.2020, ha dichiarato illegittimo l’art. 1 co. 6 lett b) della Legge Spazzacorrotti, nella parte in cui non prevede il divieto di applicazione delle disposizioni in esame per i fatti commessi prima della sua entrata in vigore.

In particolare, la questione veniva sollevata dai Tribunali di Sorveglianza chiamati a decidere su istanze di concessione di benefici o misure alternative alla detenzione e dai Giudici dell’esecuzione investiti di istanze volte a ottenere la sospensione o la declaratoria di illegittimità di ordini di esecuzione della pena, da parte di condannati per i reati contro la Pubblica Amministrazione commessi prima dell’entrata in vigore della Legge in esame.

Le ordinanze, in particolare, lamentavano la violazione dell’art. 25 co. 2 Cost., in base al quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, e dell’art. 7 CEDU, con riferimento ad alcune recenti sentenza della Corte EDU, volte ad estendere il divieto di retroattività delle modifiche normative in peius a talune disposizioni relative all’esecuzione della pena.

La decisione della Corte Costituzionale n.32 del 2020

La Corte Costituzionale, rigettando le eccezioni avanzate dall’Avvocatura Generale dello Stato, accoglieva la questione di legittimità sollevata dalle ordinanze menzionate.

Nella sentenza n. 32 del 2020, la Corte ha chiarito anzitutto che, seppur è vero che le pene detentive debbano essere eseguite in base alla legge penale in vigore al momento della loro esecuzione, ciò non vale se tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente, una trasformazione della pena e della sua incidenza sulla libertà personale.

In tale ipotesi, infatti, risulterebbe violato il principio sancito dall’art. 25 co. 2 Cost.

Nel caso di specie, in particolare, la norma censurata comportava, per alcuni reati contro la Pubblica amministrazione, una vera e propria trasformazione della natura delle pene, in relazione al divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Invero, il divieto di applicazione retroattiva in peius riguarda non solo una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, ma anche quella che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato: tale divieto è sancito non solo dalla Carta costituzionale (art. 25 co. 2), ma trova altresì esplicita menzione nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU.

Tali principi mirano a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze alle quali si esporrebbe trasgredendo il precetto penale e gli consentirebbe, inoltre, di compiere scelte difensive più adeguate, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori ai quali potrebbe andare incontro in caso di condanna.

Proprio in ragione di tale ultima osservazione, le ordinanze in oggetto lamentavano, altresì, la violazione dell’art. 24 Cost., che sancisce l’inviolabilità del diritto di difesa.

Invero, come spiega la Corte Costituzionale, un imputato potrebbe decidere di rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura, tale da consentirgli, sin da subito, di ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando nel meccanismo sospensivo dell’ordine di esecuzione, previsto dall’art. 656, comma 5, c.p.p.

In modo analogo, lo stesso imputato potrebbe decidere, al contrario, di affrontare il dibattimento, confidando nella concreta probabilità che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà il suo ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere, in base alla normativa vigente al momento del fatto.

Una modifica in peius della normativa in materia penitenziaria, dunque, è suscettibile di ledere le legittime aspettative poste a fondamento delle scelte difensive operate da colui che subisce un procedimento penale, esponendolo a conseguenze che, al momento della loro adozione, non potevano essere previste.

La Corte Costituzionale, inoltre, aggiunge che l’applicazione retroattiva in peius delle norme riguardanti l’esecuzione delle pene, risulterebbe lesiva anche degli artt. 3 e 27 Cost., in ordine ai principi di eguaglianza e di finalità rieducativa della pena.

Conclusioni

In definitiva, può dirsi che, nel nostro ordinamento, vige, in generale, il divieto di retroattività in peius delle norme relative all’esecuzione della pena, allorquando comportino una vera trasformazione della natura della stessa e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. Al contrario, tale principio non opera quando la normativa sopravvenuta comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena previste dalla legge al momento del reato.

Soltanto nel primo caso, infatti, la successione normativa determina l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un “aliud” rispetto a quella stabilita al momento del fatto.