Coronavirus e libertà personali: Diritto ed emergenza a confronto.

In questi giorni stiamo vivendo un’emergenza mai vista prima: la nostra salute, bene primario costituzionalmente tutelato, è minacciata da un nemico terribile ed invisibile e lo Stato è in prima linea per evitare che questa tragedia abbia conseguenze più gravi di quelle sotto i nostri occhi.

Tuttavia, questo stato emergenziale non deve distogliere i giuristi dal cogliere eventuali aspetti di violazione della Costituzione che potrebbero nascondersi nelle pieghe dell’attività normativa posta in essere dal Governo.

Può sembrare, in questo momento, un’attività a carattere puramente accademico e teorico: in realtà così non è perché ci sono tutte le premesse per ipotizzare conseguenze non di poco conto che verranno alla luce pienamente quando sarà passata l’emergenza. Conseguenze che potrebbero incidere sulla vita di tanti cittadini che, per ragioni varie e non necessariamente legate a comportamenti futili, si stanno trovando come destinatari di norme giuridiche sanzionatorie approvate “a spanna” e sull’onda degli sviluppi imprevedibili dell’epidemia di corona virus.

Per questi motivi appare opportuno una riflessione “a caldo” su questi scottanti temi.

Un decreto del Presidente del Consiglio può limitare la libertà personale dei cittadini?

E’ ormai noto a tutti che le restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini sono state imposte da un Dpcm, ossia un decreto del Presidente del Consiglio.

Un decreto ministeriale (D.M.), nell’ordinamento giuridico italiano, è un atto, formalmente amministrativo ma sostanzialmente normativo, emanato da un ministro nell’ambito delle materie di competenza del suo dicastero.

Quando questo tipo di atto è emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri prende la denominazione di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (d.p.C.m.).

Il decreto ministeriale non costituisce quindi una fonte del diritto autonoma, bensì la veste formale spesso attribuita ad una fonte secondaria (regolamento).

Attualmente, il potere regolamentare attribuito al Governo è disciplinato dall’art. 17 della Legge 23 agosto 1988, n. 400. Essa costituisce la fonte attributiva di detto potere che, sulla base del sistema delle fonti disciplinato dalla Costituzione, non può essere esercitato in difetto di una specifica attribuzione di rango primario (ossia di legge ordinaria).

I regolamenti emanati nella veste di decreti ministeriali non possono, pertanto, derogare, quanto al contenuto, né alla Costituzione, né alle leggi ordinarie sovraordinate.

Per identico motivo, le norme regolamentari non possono avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia (art. 25 della Costituzione).

Quanto al procedimento, occorre distinguere tra i regolamenti adottati dal Governo in veste di organo collegiale (art. 92 della Costituzione), dai regolamenti emanati dai singoli Ministri nell’ambito di competenza loro attribuito: solo questi ultimi, come detto, vengono emanati tramite decreti ministeriali.

I regolamenti governativi in senso proprio seguono invero un procedimento aggravato, in quanto essi vengono emanati con Decreto del presidente della Repubblica (D.P.R.), previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentito il parere del Consiglio di Stato (obbligatorio ma non vincolante). Essi sono inoltre sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

I regolamenti adottati con decreto ministeriale, invece, sono emanati dai singoli ministri e semplicemente comunicati al Presidente del Consiglio prima dell’entrata in vigore. Qualora l’organo emanante sia lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri, nell’ambito delle funzioni di coordinamento e indirizzo politico-amministrativo ed esso attribuite, il regolamento viene emanato nella forma di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.).

Esistono varie tipologie di regolamenti ministeriali. Tra essi i più significativi sono quelli:

esecutivi, emanati per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi, nonché dei regolamenti comunitari (art. 17, comma 1 lett. a), l. 400/1988);

attuativi e integrativi, che si distinguono dai primi in quanto non si limitano a dare esecuzione a norme contenute nella fonte sovraordinata (legge, decreto legislativo), ma hanno contenuto innovativo, assicurando l’applicazione e l’integrazione delle leggi, ancorché nei limiti della disciplina da essa prefissata (art. 17, comma 1 lett. b), l. 400/1988)[1];

indipendenti, destinati a intervenire in materie la cui disciplina non sia già coperta da norme contenute in una legge sovraordinata. L’attribuzione di una generale competenza regolamentare del Governo e dei singoli Ministri in assenza di una legge ordinaria che disciplini gli aspetti generali della materia ha sollevato dubbi di compatibilità con il principio costituzionale di legalità. Tali dubbi sono tuttavia venuti meno nella prassi, atteso che non è dato rinvenire ormai quasi nessuna materia non coperta, almeno parzialmente, da norme di legge (art. 17, comma 1 lett. c), l. 400/1988);

di delegificazione, così chiamati perché emanati allo scopo di regolare materie già regolate da leggi ordinarie, per le quali sia stata prevista l’abrogazione e la contestuale autorizzazione al Governo ad emanare norme di fonte regolamentare in loro sostituzione.

Ciò detto, il primo passo da compiere quindi, è capire se un Dpcm possa limitare un diritto costituzionale come quello ad uscire di casa e ad andare dove si vuole.

Per comprendere la questione bisogna rispolverare l’articolo 16 della Costituzione, secondo cui ogni cittadino può circolare liberamente nel territorio italiano salvo i limiti imposti dalle leggi. «Dalle leggi», appunto, e non da un Dpcm.

L’articolo 16 riserva, infatti, alla legge la possibilità di limitare gli spostamenti mentre il Dpcm è un atto amministrativo che, seppur sostanzialmente normativo, non ha forza di legge e che, come i decreti ministeriali, ha il carattere di fonte normativa secondaria: serve solo per dare attuazione a norme già varate dal Parlamento o dal Consiglio dei ministri.

La questione giuridica sottesa sarebbe quindi quella secondo cui il Governo, con il varo dei provvedimenti sotto forma di Dpcm avrebbe violato la Costituzione in quanto l’articolo 16 della Costituzione stessa, riserva solo alla legge e non anche a un regolamento le limitazioni di spostamento dei cittadini.

Detta questione non è di secondaria importanza in quanto non è giuridicamente ammissibile che uno scopo, quale quello di contrastare l’avanzata dell’epidemia da corona virus, venga perseguito attraverso mezzi non idonei formalmente e per di più contrari al dettato della Costituzione in quanto sottratti, di fatto, al vaglio del Parlamento quanto alla loro legittimità ed opportunità.

L’emergenza non può assurgere, infatti, a causa di giustificazione di comportamenti dell’Autorità non conformi alle regole dell’ordinamento: tale situazione si è, di fatto, verificata nel concreto e dispiace che finora non se ne sia ancora rilevata l’importanza provvedendo a sanare la situazione prima che la stessa potesse comportare il numero impressionante di denunce elevate in questi giorni.

Tra l’altro il recentissimo Dpcm del 22 marzo 2020 introduce una ulteriore restrizione alla libertà personale e di movimento delle persone senza, come già detto, averne l’autorità.

Esso al punto b dell’articolo 1 sancisce che: “b) e’ fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute; conseguentemente all’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 le parole «. E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza» sono soppresse”.

Una misura restrittiva di questo genere non poteva essere presa con un atto formalmente amministrativo come il Dpcm in quanto incidente non solo sul diritto dei cittadini alla mobilità ma anche sulle motivazioni degli spostamenti stessi lasciate in questo modo alla unica valutazione discrezionale degli Organi di Polizia effettuata, tra l’altro, in condizioni precarie e spesso senza la possibilità per il cittadino di poter tutelare il proprio diritto di spostamento senza doverne rendere conto.

Un decreto del Presidente del Consiglio può imporre sanzioni penali?

Come è noto i vari Dpcm emanati nel corso del mese di marzo 2020 non introducono nuove sanzioni dovute all’inosservanza delle regole di “distanziamento sociale” introdotte per combattere l’emergenza sanitaria, ma rinviano ad una norma del Codice penale, quindi già preesistente e avente la stessa forza di una legge, l’articolo 650 c.p.. In base ad esso, chiunque non osserva un provvedimento dell’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro.

Tuttavia le sanzioni potrebbero essere illegittime perché, se anche la norma penale era già scritta, il fatto che ad essa si ricollega, ossia il comportamento vietato, è qualificato da una norma di carattere amministrativo e non legislativo.

Come abbiamo infatti detto, il Dpcm è un semplice regolamento e non una legge. Come tale, viola l’articolo 16 della Costituzione e non può disporre limitazioni alla libertà di movimento dei cittadini. Questo significa che la sanzione penale si accompagna a un comportamento che non può costituire reato proprio perché non è stato previsto da una norma di legge varata dal Parlamento.

A questo punto però si impone una precisazione.

Con DL 23 febbraio n.6 (quello che istituiva la zona rossa) il Governo ha deliberato di conferire ad esso delega ad adottare tutte le limitazioni che potranno essere opportune per risolvere la crisi sanitaria. Dentro il Decreto Legge si richiama un’altra norma, che è l’articolo 117 del decreto legislativo n. 112 del 1998 ove si legge che: «In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle Regioni in ragione della dimensione dell’emergenza».

Potremmo allora dire che il Dpcm specifica solo una situazione emergenziale già affrontata prima con la legge; non istituisce un reato e, quindi, non ci sarebbe alcuna violazione della riserva di legge. Il Dpcm, come detto, si limita a richiamare l’applicazione dell’articolo 650 del Codice penale che, dal suo canto, punisce l’inosservanza di provvedimenti amministrativi.

Insomma, l’appoggio normativo che renderebbe possibile sia la limitazione della libertà di movimento tramite Dpcm, sia con il richiamo a sanzioni penali potrebbe esserci.

Queste considerazioni meritano però un approfondimento.

Il Presidente del Consiglio si è attribuito, con il decreto legge n. 6/2020 i poteri di poter deliberare con i Dpcm, senza che vi sia stata una preventiva previsione normativa o successiva ratifica da parte del Parlamento.

Di fatto questo iter procedurale posto in essere dal Presidente del Consiglio dei ministri, ha completamente scavalcato le garanzie Costituzionali poste a tutela dei cittadini in considerazione del fatto che in stato di emergenza, non è prevista la preventiva valutazione di costituzionalità degli atti che vengono emanati.

Pertanto, appare condivisibile l’opinione, espressa da più parti, secondo la quale la forma giuridica corretta per sancire le norme emergenziali in questione di limitazione della libertà di movimento avrebbe dovuto essere esclusivamente quella del decreto legge in quanto atto avente forza di legge e, quindi, rientrante nel dettato costituzionale dell’art.16.

Se, infatti, si leggono attentamente i Dpcm, emanati in queste convulse giornate, non tutti limitano la libertà personale specificando in gran parte parametri dettati dal precedente provvedimento di urgenza.

Nel caso però del Dpcm del 9 marzo con il quale è stata estesa a tutto il territorio nazionale la zona rossa e, da ultimo, nel Dpcm del 22 marzo, si è utilizzata una fonte secondaria per limitare la libertà personale dei cittadini commettendo, in questo modo, una palese violazione di una norma di rango superiore, sia pure in nome di una esigenza pienamente condivisibile come quella del contenimento dei contagi.

Conclusioni

Come si è visto, oggetto di analisi sono state le conseguenze di carattere costituzionale provocate dalla normazione del Governo non sempre chiara e rispondente in materia di restrizioni alla libertà personale come rimedio alla espansione dei contagi da corona virus.

Se peraltro sono giustamente da perseguire tutti quei comportamenti punibili ex artt. 495 e 496 codice penale posti in essere dai soggetti che, privi di motivo plausibile e giustificato, hanno reso dichiarazioni mendaci agli Organi di Polizia, le denunciate violazioni all’art. 650 c.p. non trovano adeguata giustificazione giuridica in quanto sanzionate in base a norme illegittime nel senso sopra illustrato e comporteranno sicuramente un ulteriore aggravio della già martoriata macchina giudiziaria penale.

Infatti, comportamenti, dichiarati come illeciti solo in quanto intervenuti in una situazione di carattere eccezionale, dovevano essere disciplinati tenendo conto dei presupposti fondamentali del nostro ordinamento costituzionale che non ammette deroghe di sorta se non in presenza di una pronuncia del Parlamento attraverso l’emanazione di apposite leggi da quest’ultimo approvate.

La situazione che si sta delineando porterà sicuramente come ricasco non solo un’attività ulteriore della Magistratura ma anche un esteso contenzioso a cui, ci si augura, porrà fine il Supremo Giudice delle Leggi, ossia la Corte Costituzionale con una propria pronuncia che faccia chiarezza sul delicato punto oggi esaminato.